Giorgia Meloni ha tenuto il suo discorso alle Camere. Si è respirata di nuovo aria di democrazia, quell’aria che con i tanti governi “tecnici” o “del Presidente” o “di larga intesa”, si stentava a cogliere. Anche il più politico dei governi tecnici, il governo di Mario Draghi, consisteva in fondo in un execution, ancorché eccellente, della mission indicata dal Presidente della Repubblica.
Lo stesso Conte non ha avuto una piena legittimazione elettorale. Fu scelto come premier-manager da Di Maio e Salvini per attuare il “contratto di governo” che avevano stipulato.
Per ritrovare un governo davvero politico, presieduto da una figura indirettamente indicata dagli elettori, forte di una propria visione, bisogna risalire al 2008, al Governo Berlusconi IV.
Insomma, ci eravamo disabituati al pieno esercizio democratico e ci eravamo assuefatti alla proposizione di ricette tecniche in sostituzione delle visioni politiche, finendo per adottare un atteggiamento tecnocratico. Di questo atteggiamento tecnocratico, Carlo Calenda sembra fare la sua bandiera, come d’altronde dimostra la critica che egli rivolge alla Meloni, accusata appunto di elencare i temi e non illustrare le soluzioni. Ma i leader politici propongono una visione, indicano una via, illustrano uno scopo da perseguire. Questo Meloni ha cercato di fare presentando alle Camere il suo governo e secondo me lo ha fatto piuttosto bene.
Il deployment delle strategie in soluzioni tecniche operative, é un passaggio successivo.
Dal punto di vista dei contenuti, mi è parso un discorso ispirato a principi democratici e liberali, caratterizzato da una scelta di campo internazionale di tipo europeista e atlantista, mosso sul piano della giustizia da spirito garantista. Anche il caldo richiamo a un rapporto sano con le forze politiche di opposizione e all’intento di riformare insieme l’impianto istituzionale, ha un sapore profondamente democratico.
Si tratta di un discorso che avrebbe potuto pronunciare un qualsiasi leader liberale europeo. Questa è la mia opinione.
Insomma, chi prevedeva sguaiatezza e autoritarismo, si sbagliava. Così come si sbagliava chi prevedeva una squadra di governo composta da macchiette con libro e moschetto: la qualità della composizione del nascente governo è migliore rispetto ai governi della passata legislatura e segnatamente del Conte I e del Conte II.
Certo, c’è anche Salvini, ma in un sistema in cui governano le coalizioni, con le coabitazioni difficili bisogna farci inevitabilmente i conti. Meloni saprà gestire Salvini? Per ora mi limito a registrare come Salvini la applaudisse mentre impegnava il suo governo a “sostenere con ogni mezzo il valoroso popolo ucraino”.
Insomma, l’Italia può contare su un governo di qualità più che accettabile, ispirato a dichiarati principi liberali.
In qualunque paese europeo, l’azione politica di un siffatto governo, sarebbe condizionata in senso liberale grazie alla partecipazione del Partito Liberal-democratico. In Italia no, in Italia un Partito Liberal-democratico non c’è. Ciò che più gli assomiglia è il terzo polo, ma come ho più volte sottolineato, Azione e Italia Viva si portano dietro una sorta di nevrosi che in un mio recente articolo sintetizzo con il complesso della sinistra, la sindrome dell’ex, la fobia per la destra.
Così il terzo polo rinuncia a quella che dovrebbe essere la missione di un partito liberal-democratico: partecipare al governo, assicurandone e rafforzandone la dichiarata ispirazione liberale.
Così Renzi, pur giganteggiando fra i tanti nani politici che siedono in Parlamento, tuttora afflitto dalla sindrome dell’ex, ancora una volta rivolge il suo intervento in Senato soprattutto agli “amici del PD”, ridicolizzandoli. Ma il sistema democratico italiano non ha bisogno delle battute di Renzi, né dei sassolini che si toglie dalla scarpa, ha bisogno del partito che non c’è, di un partito liberal-democratico che sappia fare il partito liberal-democratico.