Scrivo nella ricorrenza del Giorno del Ricordo, ricorrenza che celebra la tragedia dell’esodo istriano, dalmata e giuliano. Anche quest’anno, come ogni anno, spuntano quelli del “si, ma” e del “si, però”, quelli che non riescono proprio a condannare senza tentennamenti e senza riserve, quelli che non esitano a considerare “fascista” chiunque renda omaggio alle vittime delle foibe. Essi sono prigionieri di vecchi steccati oggi privi di senso. Non riescono a superare quella cultura dell’anti e del contro che ha impedito un’autentica emancipazione della democrazia italiana.
Mio nonno paterno si diceva socialista e quando, agli albori del ventennio fascista, pochi giorni dopo l’assassinio di Matteotti, nacque uno dei suoi figli (mio padre), scelse di chiamarlo Giacomo di primo nome e Matteotti di secondo. Non fu possibile: gli impiegati municipali, per paura, si rifiutarono e il secondo nome fu tramutato in Matteo. La sua storia ha certamente influito sulla vita del figlio Giacomo Matteo che, diciott’anni dopo, avrebbe aderito alla Resistenza. Dopo la Liberazione, mio papà aderì all’ANPI, l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia, ma non si riconobbe in quel pensiero unico secondo il quale la Resistenza sarebbe stata condotta in modo preminente da partigiani comunisti. Cercò di spiegare come, secondo la sua esperienza, si fosse trattato invece di un movimento spontaneo e, in fondo, semi-consapevole. Fu cacciato dall’ANPI con l’epiteto di social-fascista.
Il nonno materno fu uomo riservato, non l’ho mai sentito lamentarsi di alcunché, meno che meno l’ho sentito recriminare contro qualcosa o qualcuno. Per mio nonno e la sua famiglia, la fine della seconda guerra mondiale corrispose a un tragico esodo, l’esodo istriano. In effetti, l’Italia uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, cedette alla Yugoslavia quella bellissima e bianca penisola chiamata appunto Istria. I partigiani comunisti del Maresciallo Tito, infierirono nei confronti della popolazione italiana: solo chi si dichiarava comunista e disposto a diventare slavo, veniva risparmiato, chi rivendicava, anche ingenuamente e innocuamente, la sua identità italiana, veniva gettato nelle foibe, profonde cavità rocciose aperte a ridosso della scogliera. Bastava gettare uno degli sventurati e tutti gli altri, legati insieme col filo spinato, lo seguivano a catena nella caduta. Alcuni si sono salvati da questo orribile destino e sono fuggiti abbandonando ogni cosa e migrando in altre parti di Italia. Mio nonno scelse per il suo nuovo approdo un’altra città di mare, Genova, dove sua figlia mi diede successivamente alla luce.
In effetti, la tragedia del popolo istriano non si limitò all’esodo; ci fu una sofferenza morale aggiuntiva data dal fatto che nessuno si occupò di loro e che, anzi, i più li guardarono con diffidenza. Il Partito Comunista di allora, infatti, non esitò a gettare fango sulla tragedia di questi connazionali. Mio nonno, uomo di sicura fede democratica e riformista, fu spesso etichettato, in quanto profugo istriano, come “fascista”. Fa molta impressione leggere quanto scrisse L’Unità nel novembre del 1946 a proposito dei profughi istriani: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.” Insomma le parole del PCI di ieri, assomigliano alle parole di Casa Pound di oggi.
L’emarginazione dei profughi istriani, fu una delle concessioni che, nell’ambito della ricostruzione nazionale post fascista, furono fatte al Partito Comunista ad opera delle forze politiche dell’arco costituzionale e segnatamente della DC. Si tratta di una vergogna che pesa nel già pesante zaino comunista, ma anche sulla coscienza dell’intero Paese.
I miei due nonni rappresentano dunque due storie diverse, certo, ma entrambe raccontano di uomini che hanno vissuto il loro tempo, di vittime che hanno saputo affermare la loro identità e provare a proteggere le loro famiglie, al di la di ogni tentativo di sopraffazione. Ha senso, oggi, distinguere queste vicende umane col criterio della destra e della sinistra? Ha senso, oggi, attribuire una maggiore positività valoriale all’una o all’altra vicenda, utilizzando lo schema destra-sinistra?
Credo che per far evolvere la qualità della politica italiana e della nostra stessa democrazia, occorra un ripensamento radicale e trasversale e che il compito di rompere col passato tocchi alle persone autenticamente animate da spirito laico e onestà intellettuale, indipendentemente dalla loro appartenenza politica. Occorre immaginare un nuovo paradigma che ci aiuti a leggere la realtà al di là dei vecchi steccati, delle facili etichette, di consunti stereotipi.
Chiunque ambisca a costruire l’alternativa al pentaleghismo, esso stesso intriso di un mix di cultura politica fascista e comunista, scavalchi i vecchi steccati e superi la cultura del contro.
Non ce la fate? Proprio ci tenete a definirvi anti? Bene, almeno sappiatevi definire tanto antifascisti quanto anticomunisti.
Nessun reduce, di nessuna parte, può essere protagonista del futuro.