Il reddito di cittadinanza, si sa, è la bandiera dei grillini, il loro irrinunciabile fiore all’occhiello, la loro più nobile battaglia. I sussidi di disoccupazione esistono in moltissimi paesi, anche il Italia è previsto ad esempio un aiuto consistente, ma temporaneo, per chi perde il lavoro.
Ma in questo caso, il sussidio si chiama reddito e la disoccupazione si chiama cittadinanza. Mi sono sempre domandato perché mai avessero scelto un nome così singolare. Ora che sono state chiarite le modalità erogative, ho capito la ragione: chi riceve un sussidio, lo considera un aiuto temporaneo da parte della collettività, condizionato all’impegno di rimettersi in gioco nel mondo del lavoro; chi riceve il reddito di cittadinanza deve invece considerarlo una sorta di dovuto rimborso da parte dello Stato per non aver ancora provveduto a trovargli un lavoro.
Gli effetti perversi del reddito di cittadinanza, non riguardano solo e tanto aspetti economici, ma piuttosto culturali. Per come è pensato, esso produrrà l’idea che gli individui non onorino se stessi mettendosi in gioco, impegnandosi per costruirsi la possibilità di un reddito proprio, sentendosi ulteriormente responsabilizzati dal sostegno da parte della comunità; no, la cultura del reddito di cittadinanza vuole che gli individui passino la vita pretendendo un reddito in quanto “cittadini” e deleghino allo Stato la creazione delle condizioni perché un reddito sia invece prodotto grazie a un lavoro. Sotto casa, ben inteso.
Nella cultura del reddito di cittadinanza si miscelano il più spinto veterosindacalismo col più perverso assistenzialismo, i diritti si trasformano in pretese e l’individuo non rappresenta una risorsa, ma una recriminante bocca da sfamare.