Dei miei quattro nonni ne ho conosciuto uno solo, il nonno materno. Di mestiere faceva il concertista e, per l’esattezza, il pianista nei concerti per pianoforte e orchestra. Suonava per lo più all’Arena di Pola, in Istria, dove era nato e cresciuto. Giacché i concerti per pianoforte e orchestra non sono poi così comuni, per arrotondare, suonava il pianoforte nei cinema: era l’epoca del cinema muto.
Per mio nonno e la sua famiglia, la fine della seconda guerra mondiale ha corrisposto a un tragico esodo, l’esodo istriano. In effetti, l’Italia uscita sconfitta dalla seconda guerra mondiale, cedette alla Yugoslavia quella bellissima e bianca penisola chiamata appunto Istria. I partigiani comunisti del Maresciallo Tito, infierirono nei confronti della popolazione italiana: chi si dichiarava comunista e disposto a diventare slavo, veniva risparmiato, chi rivendicava, anche ingenuamente e innocuamente, la sua identità italiana, veniva gettato nelle foibe, profonde cavità rocciose aperte a ridosso della scogliera. Bastava gettare uno degli sventurati e tutti gli altri, legati insieme col filo spinato, lo seguivano a catena nella caduta.
Alcuni si sono salvati da questo orribile destino e sono fuggiti abbandonando ogni cosa e migrando in altre parti di Italia. Mio nonno scelse per il suo nuovo approdo un’altra città di mare, Genova, dove trovò un impiego al INPS. Non gli ho mai sentito pronunciare mezza parola di recriminazione, eppure da Rachmaninov al INPS il salto dev’essere stato notevole.
Quanti giovani conoscono la tragedia dei profughi istriani? Immagino pochi, molti meno di quanti, almeno per sentito dire, non conoscano, ad esempio, la vicenda delle Fosse Ardeatine.
Ciò ha una spiegazione. In effetti, la tragedia del popolo istriano non si limitò all’esodo; ci fu una sofferenza morale aggiuntiva data dal fatto che nessuno si occupò di loro e che, anzi, i più li guardarono con diffidenza. Il Partito Comunista di allora, infatti, un po’ per malsana convinzione, un po’ perché accecato dall’ideologia, un po’ per le gabbie delle sue alleanze internazionali, non esitò a gettare fango sulla tragedia di questi connazionali. Fa molta impressione leggere quanto scrisse L’Unità nel novembre del 1946 a proposito dei profughi istriani: “Ancora si parla di ‘profughi’: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori. I gerarchi, i briganti neri, i profittatori che hanno trovato rifugio nelle città e vi sperperano le ricchezze rapinate e forniscono reclute alla delinquenza comune, non meritano davvero la nostra solidarietà né hanno diritto a rubarci pane e spazio che sono già così scarsi.” Insomma le parole del PCI di ieri, corrispondono alle parole di Casa Pound di oggi.
L’emarginazione dei profughi istriani, fu una delle concessioni che, nell’ambito della ricostruzione nazionale post fascista, furono fatte al Partito Comunista ad opera delle forze politiche dell’arco costituzionale. Si tratta di una vergogna che pesa nel già pesante zaino comunista, ma anche sulla coscienza dell’intero Paese.
Nell’Italia democratica, mio nonno non fu di sinistra, fu sempre fedele al suo riferimento politico, la Democrazia Cristiana, fu un silenzioso esponente dell’altrettanto silente maggioranza che non a caso prese il nome di “maggioranza silenziosa”. A partire dagli anni sessanta, quella scelta politica fu ridicolizzata dalla gran parte degli intellettuali nostrani. Oggi che la Storia ha emesso i suoi inequivocabili verdetti, possiamo affermare con serena consapevolezza che mio nonno si schierò dalla parte giusta. Gli altri, quelli impegnati, quelli emancipati, gli urlatori di certezze, dalla parte sbagliata.
Il nonno paterno non l’ho conosciuto. Di lui so però che si diceva socialista e che quando, agli albori del ventennio fascista, pochi giorni dopo l’assassinio del deputato socialista Giacomo Matteotti, nacque uno dei suoi figli (mio padre), scelse di chiamarlo Giacomo di primo nome e Matteotti di secondo. Non fu possibile: gli impiegati municipali, per paura, si rifiutarono e il secondo nome fu tramutato in Matteo. Ciò fu però sufficiente a procurargli tante bastonate ad opera di una squadraccia fascista, da generare lesioni polmonari che lo ridussero in fin di vita e ne procurarono la morte non molto tempo dopo.
La sua storia ha certamente influito sulla vita del figlio Giacomo Matteo che, diciott’anni dopo, avrebbe aderito alla Resistenza. Dopo la Liberazione, mio papà aderì all’ANPI, l’Associazione Nazionale dei Partigiani d’Italia, ma non si riconobbe in quel pensiero unico secondo il quale la Resistenza sarebbe stata condotta in modo preminente da partigiani comunisti. Cercò di spiegare come, secondo la sua esperienza, si fosse trattato invece di un movimento spontaneo e di popolo. Fu cacciato dall’ANPI con l’epiteto di social-fascista.
Due storie diverse, certo, ma entrambe raccontano di uomini che hanno vissuto il loro tempo, di vittime che hanno saputo affermare la loro identità e provare a proteggere le loro famiglie, al di la di ogni tentativo di sopraffazione. Ha senso, oggi, distinguere queste vicende umane col criterio della destra e della sinistra? Ha senso, oggi, attribuire una maggiore positività valoriale all’una o all’altra vicenda, utilizzando lo schema destra/sinistra?
No, non ha alcun senso. Lo schema destra/sinistra rappresenta una contraddizione ampiamente secondaria e non ci aiuta più a leggere la realtà. Oggi il discrimine è tra chi indica soluzioni e chi indica nemici, tra chi apre e chi chiude, tra chi include e chi esclude.
Per questo il processo di integrazione europea rappresenta uno spartiacque emblematico e trasversale rispetto alla collocazione degli schieramenti.